Ognuno di noi usa decine di password, per la posta elettronica, i conti bancari, i social network. Per essere sicure non dovrebbero contenere informazioni personali. Ma le più difuse sono proprio quelle che si basano sui ricordi e gli affetti a cui teniamo di più. E’ quello che mette in evidenza un articolo del reporter investigativo Ian Urbina del The New York Times Magazine ripreso poi da Internazionale.
Ecco qualche stralcio davvero interessante:
So bene che tutti odiano le password perché è faticoso ricordarle, si devono cambiare continuamente e ormai sono diventate troppe. Le odio anch’io. Ma le password non sono solo una seccatura. Il fatto che siamo noi a inventarle, a costruirle in modo da essere gli unici a poterle ricordare, dà alle password una vita segreta. Molte sono cariche di pathos, di malizia e perfino di poesia. Spesso hanno una storia interessante. Possono essere un motto che ci dà la carica, frecciatine ai nostri capi, un ricordo di un amore perduto, una battuta che capiamo solo noi, una cicatrice emotiva: queste “password ricordo”, come ho deciso di chiamarle, sono passatempi della nostra vita interiore. Possono ispirarsi a qualsiasi cosa: alla Bibbia, a un oroscopo, a un soprannome, a una canzone, a un libro. Come i tatuaggi fatti nei punti più nascosti del corpo, le password sono personali e dense di significato.
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Quando ho parlato delle password personalizzate a Paul Safo, che insegna ingegneria a Stan- ford e scrive spesso sul futuro della tecno- logia, ha coniato il termine “criptohaiku”.
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forse i tecnici informatici del suo ufficio non la pensavano allo stesso modo, considerato che di solito la prima regola è evitare di scegliere parole che hanno un valore personale. Rachel mi ha fatto notare che infrangiamo spesso questa regola perché le password anonime sono molto più difficili da ricordare. Secondo lei, il nostro cervello tende ad ancorare i nuovi ricordi ai vecchi. Ho risposto che forse c’è anche qualcosa di più profondo in queste scelte, quasi un che di cartesiano. Gli esseri umani hanno bisogno di caricare tutto di significato. Tendono a tradurre i simboli in parole.
Ho proseguito dicendo che cerchiamo di sfruttare al meglio le situazioni, trasformando i nostri impacci in forme d’arte. Tra tante cose effimere, aspiriamo a qualcosa di permanente, quindi ignoriamo il consiglio di creare password anonime e preferiamo mantenere quelle che per noi sono speciali. Sono tendenze come queste che distinguono la nostra specie.
Queste password speciali sono un po’ come degli origami: piccoli gesti creativi, spesso improvvisati, che a volte nascono dalle situazioni più banali.
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Ho chiesto a Andy Miah, un professore di scienza della comunicazione e media digitali dell’università di Salford, in Inghilterra, cosa pensa delle password. Lui ne ha dato una lettura antropologica. Secondo Miah le password personalizzate ritualizzano l’incontro quotidiano con ricordi intimi che spesso non possono essere evocati in nessun altro modo. Abbiamo a che fare con loro più spesso e in modo più attivo che con le fotografie sulla nostra scrivania. “Se abbandoniamo quel rituale”, ha detto, “perdiamo un momento di intimità con noi stessi”.
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Mi sono chiesto se non si potesse fare un (modesto) parallelo tra quello che io ve devo nelle password personalizzate e gli elaborati schemi ricorrenti della musica, della matematica e dell’arte che Hofstadter descrive nel suo libro. Forse non ci limitiamo a creare password che ci ricordano qualcosa ma tendiamo a inserire al loro interno schemi autoreferenziali, come dei frattali della psicologia umana.
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Alcuni schemi li scopriamo, mi ha risposto, altri li creiamo. Ma soprattutto, “ci opponiamo alla casualità, le password personalizzate dipendono da questo”.
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Internet è una sorta di confessionale. Oggi che la privacy sta scomparendo, le password potrebbero presto diventare come i vinili di cui parliamo con nostalgia ai nostri nipoti.
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L’era digitale ci travolge con il suo flusso continuo di informazioni e la costante necessità di correggere errori. Non facciamo in tempo a capire come funziona un dispositivo che è già superato. E queste frustrazioni si incanalano tutte nella rabbia per aver dimenticato una password.
Non c’è nulla di più alienante che ritrovarsi in un purgatorio in cui, avendo dimenticato una password, ci vengono rivolte domande personali a cui non riusciamo a rispondere correttamente. Le notizie che arrivano quasi ogni settimana di gravi casi di violazione della sicurezza informatica ci fanno pensare che su internet la privacy sia ormai diventata impossibile. Molte delle persone che ho intervistato mi hanno detto di aver rinunciato alla sicurezza online e di usare password non sicure. Questi nudisti del digitale gettano alle ortiche ogni cautela e si offrono senza veli agli hacker e ai la dri di identità: conidano nella speranza di potersi confondere tra la folla.
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Ma l’aspetto che gli era piaciuto di più era proprio quello che rendeva le password tanto imperfette: “Le persone prendono qualcosa che viene loro imposto, come memorizzare una password, e ne fanno un’esperienza umana significativa, anzi, a giudicare dai dati, si tratta quasi sempre di un’esperienza affettiva”.
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