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Dal 2004 il blog di Antonio Troise

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Mag 18 2015

E-Kaia: il futuro energetico del nostro pianeta è nelle piante

Posted by Antonio Troise
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Qualche tempo fa pubblicai un articolo su quella che io definii, in similitudine alla IoT, una Internet Of Plants (IoP), un metodo affascinante per usare i segnali elettrici delle piante per farle comunicare tra di loro e, una volta ben interpretati, usarli per avere informazioni, quasi a costo del zero, sulla situazione del traffico, sulla presenza degli inquinanti nell’aria e sulla rilevazione di incendi nei boschi. Con le piante il concetto può essere ribaltato: invece di inserire dei sensori nelle cose, andiamo ad usare delle cose che sono già piene di sensori naturali e che hanno una diffusione capillare per tutto il pianeta.

E-Kaia

Ebbene recentemente è ribalzata sui media la notizia che un team di ricercatori cileni ha sviluppato E-Kaia, una tecnologia che promette di ricaricare le batterie degli oggetti elettronici usando piccole piante in vaso, sfruttando pienamente il meccanismo della fotosintesi clorofilliana sfrutta partendo dalla energia solare. In futuro, quindi, sarà possibile ricaricare piccoli oggetti come i telefoni cellulari o luci a LED sfruttando una singola pianta, generando un output fino a 5 volt a 0.6 ampere (l’alimentatore USB Apple di serie con l’iPhone fornisce 5 volt a 1 ampere).
Tra le possibilità future di questi progetti, vi è la creazione di parchi autosufficienti.

Insomma il futuro energetico del nostro pianeta sembra essere sempre più nelle foglie delle nostre piante!

Tag:consumo_energetico, scienza
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Giu 11 2014

La mente in stato di grazia: il flusso

Posted by Antonio Troise
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Il flow, o flusso, è quel senso di calma e concentrazione che caratterizza le prestazioni eccezionali in tutti i campi. È una condizione molto difficile da definire, e più che mai da controllare, ma forse in futuro una serie di nuove tecnologie potrebbe permetterci di ricrearla. L’idea è trovare una scorciatoia che riduca il tempo necessario per acquisire una nuova abilità: giocare a tennis, suonare il piano o diventare tiratori scelti.

Secondo uno studio di Anders Ericsson, dell’università della Florida a Tallahassee, per diventare esperti in qualsiasi disciplina ci vogliono di solito diecimila ore di esercizio. In tutto questo tempo il nostro cervello crea una serie di nuovi circuiti che alla fine ci permettono di praticare quella disciplina automaticamente, senza essere coscienti di quello che facciamo.
Pensate a come il campione di tennis Roger Federer, dopo anni di allenamento, riesce a combinare con grazia una complicata serie di azioni quando, con un occhio alla palla e uno al suo avversario, sfodera un rovescio im- prendibile, eseguito in un attimo e con un movimento perfetto.
Di solito questi momenti sono dovuti al flusso (flow), uno stato d’intensa concentrazione simile a quello di chi pratica lo zen, una condizione in cui il tempo sembra fermarsi e siamo completamente focalizzati su quello che stiamo facendo. Gli esperti lo citano spesso per descrivere cosa si prova quando si è al massimo delle proprie capacità. Con anni di pratica diventa naturale riuscirci e non è necessario essere una professionista.
Alla fine degli anni settanta, lo psicologo Mihály Csíkszentmihályi capì che la capacità di concentrarsi senza fare sforzi accelera i progressi, e la sensazione di gioia che l’accompagna rende meno faticoso l’allenamento successivo, predisponendo la persona al successo. Csíkszentmihályi riuscì anche ad individuare quattro caratteristiche fondamentali del flusso:

  1. una concentrazione totale che fa perdere il senso del tempo.
  2. la cosiddetta autotelicità, la sensazione che l’attività in cui siamo impegnati sia gratiicante in sé.
  3. la sicurezza che le nostre capacità sono perfettamente adeguate al compito e quindi non proviamo né frustrazione né noia.
  4. infine, quello che caratterizza più di tutto il flusso è l’automaticità, per esempio la sensazione che il pianoforte stia “suonando da solo”.

Certo, forse è possibile definire lo stato di flusso e individuarne le caratteristiche, ma un principiante può imparare a mettere da parte le sue capacità critiche e concentrare al massimo l’attenzione in qualsiasi momento? E se può farlo, otterrà risultati migliori? Gabriele Wulf scoprì che poteva far migliorare rapidamente le capacità di una persona chiedendole di concentrare l’attenzione su un punto esterno al suo corpo. Gli aspiranti sciatori imparavano prima se si concentravano su una macchia davanti a loro. I golfisti che focalizzavano l’attenzione sulla mazza erano più precisi del 20 per cento rispetto a quelli che si concentravano sulle loro braccia. In seguito Wulf e i colleghi scoprirono che le azioni fisiche di un esperto richiedono meno movimenti muscolari di quelle di un principiante, come si può notare nei grandi atleti. I professionisti sono anche meno stressati mentalmente, hanno un ritmo cardiaco più basso e un respiro meno affannato, tutte caratteristiche dello stato di flusso. Queste osservazioni sono state confermate da studi successivi sui nuotato­ri. I principianti che si concentravano su qualcosa di esterno, come il movimento dell’acqua intorno al loro corpo, nuotavano con la stessa grazia rilassata degli esperti, erano più veloci e tecnicamente più corret­ti. Quando invece i professionisti si con­centravano sul loro corpo, rendevano di meno.

Le scoperte di Wulf si accordano be­ne con l’idea che il flusso, e un apprendi­mento più rapido, si verificano quando si smette di pensare coscientemente.

Estratto dal un articolo apparso sul periodico inglese New Scientist, tradotto sul settimanale italiano Internazionale n.937 del 24 Febbraio 2012.

Tag:flow, flusso, scienza
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Giu 12 2009

L’idea ecologica di Nokia: l’alimentazione a consumo zero che sfrutta le onde elettromagnetiche dell’etere. Le analogie con le idee di Nikola Tesla e il film sulla sua vita e invenzioni

Posted by Antonio Troise
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Che nelle nostre città vi sia inquinamento elettromagnetico è cosa oramai risaputa: in bassa frequenza (ELF) l’elettrosmog è solitamente prodotto da tralicci di elettrodotti o trasformatori a 50Hz, mentre in alta frequenza è prodotto da antenne, trasmettitori, telefonini cellulari, radar e ripetitori. Quello che invece è innovativo, è leggere che la nota società finlandese produttrice di telefonini, Nokia, ha ben pensato di sfruttare questo etere di onde elettromagnetiche che permea la nostra atmosfera, per ricaricare i cellulari! Il principio è lo stesso di quello di ricarica wireless, ovvero del trasferimento senza fili di energia sviluppato per la prima volta dal MIT, culla da anni dell’innovazione tecnologica.

Gli esperimenti di Nokia

In pratica, gli esperimenti di Nokia, si basano sullo stesso principio dei chip RFID, allo scopo di convertire le onde elettromagnetiche da cui attingere energia, in elettricità tramite due circuiti passivi.
Gli esperimenti sinora eseguiti con dei prototipi, hanno mostrato che le onde radio sono capaci di portare una potenza da 3,5 a 5 milliwatt. L’obiettivo, però, per riuscire a ricaricare del tutto un telefono spento, è di arrivare a 50 milliwatt, ampliando la gamma di frequenze dalle quali sarebbe possibile “assorbire energia”, nello spettro da 500 MHz ai 10 GHz, e riuscendo ad agganciare un migliaio di segnali forti di varie frequenze.

Nokia e la energia wireless

Tuttavia, i responsabili del progetto, sul Nokia Conversation Blog, ci tengono a specificare che si tratta di esperimenti su prototipi, e che potrebbero passare anni prima di vedere applicazioni commerciali, anche se l’idea è davvero interessante perché è in grado di sfruttare tecnologie e infrastrutture esistenti per creare energia, con un approccio del tutto verde al consumo energetico, con un costo ed impatto zero.

Nikola Tesla

Quando si parla di free energy non posso fare a meno di pensare a Nikola Tesla. A più di 60 anni dalla morte del grande fisico serbo forse l’umanità sta finalmente arrivando a questa importante meta: definito dai suoi ammiratori come “l’uomo che inventò il Ventesimo secolo” (il suo lavoro, tra i tanti, è alla base del generatore di corrente alternata), Tesla fu il primo a teorizzare questo approccio di immagazzinamento dell’energia direttamente dall’etere. Lo scienziato, infatti, intendeva utilizzare le vibrazioni elettriche naturali (ionosfera) per ricavare energia elettrica a costo zero e che avrebbe potuto fornire energia illimitata all’uomo (qualcuno ipotizzò che sarebbe anche riuscito a costruire dei dispositivi ricevitori di questa energia che avrebbe utilizzato per muovere un’autovettura, ma non se ne seppe più nulla).

Della storia di Tesla mi ha colpito molto la sua profonda umanità oltre che per le innumerevoli invenzioni che ogni giorno usiamo senza neanche saperlo! Volete alcuni esempi?

  • Fu il fu il primo uomo a scoprire le onde radio dallo spazio: scoprì i raggi cosmici decenni prima di Millikan ma, banalmente, li scambiò per messaggi provenienti da Marte.
  • Inventò il primo motore a induzione di corrente alternata, in pratica, un generatore di corrente alternata (fino ad allora si utilizzava solo quello a corrente continua di Edison, fiero sostenitore della tecnologia relativa alla corrente diretta, con cui ebbe molto da dire).
    Inventò la bobina di Tesla (un trasformatore ad alta frequenza, che è uno strumento indispensabile per la trasmissione, e quindi la fornitura a case ed industrie, della corrente alternata). Per tali merito, con il suo nome è stata chiamata l’unità di misura dell’induzione magnetica.
  • Tesla sosteneva, inoltre, l’esistenza in natura, di campi energetici, di “energia gratuita” cui diede il nome di etere. E attraverso l’etere, si potevano trasmettere, ad esempio, altre forme di energia. Da qui scaturì il concetto di radio che Marconi, prendendo spunto dalle scoperte di tesla, applicò nella sua famosa prima trasmissione attaverso gli oceani. Quindi Tesla può essere considerato a ragione il padre della radiotelegrafia e del radiocomando a distanza.
  • Tesla costruì anche la prima stazione al mondo di energia idroelettrica (alle Cascata del Niagara), il tachimetro, l’iniettore, gli altoparlanti, il tubo catodico ma è stato pure lo scopritore dell’illuminazione a fluorescenza, della sismologia e fu il primo ad immaginare una rete di comunicazione di dati su scala mondiale.
  • Comunque, la scoperta potenzialmente più significativa di Nikola Tesla fu che l’energia elettrica può essere propagata attraverso la Terra ed anche attorno ad essa in una zona atmosferica chiamata cavità di Schumann. Essa si estende dalla superficie del pianeta fino alla ionosfera, all’altezza di circa 80 chilometri. Le onde elettromagnetiche di frequenza estremamente bassa, attorno agli 8 hertz (la risonanza di Schumann, ovvero la pulsazione del campo magnetico terrestre) viaggiano, praticamente senza perdite, verso ogni punto del pianeta. Il sistema di distribuzione dell’energia di Tesla e la sua dedizione alla free energy significavano che con l’appropriato dispositivo elettrico sintonizzato correttamente sulla trasmissione dell’energia, chiunque nel mondo avrebbe potuto attingere dal suo sistema.

Nikola Tesla, fu senza dubbio lo sconosciuto eroe della scienza del XX° secolo, uno scienziato brillante ma che il suo tempo non fu in grado di comprendere, tanto da ricevere solamente ostracismo da parte della scienza ufficiale (con la conseguente svalutazione del suo nome nei libri di storia) che lo portò dalla posizione di superstar della scienza nel 1895, ad un “signor nessuno”, costretto a piccoli esperimenti scientifici in solitudine, nel 1917.

Il segreto di Nikola Tesla

Se siete interessati alla storia di questo personaggio poliedrico e affascinante, vi consiglio la visione di questo film croato (ex Jugoslavia) del 1980: Il segreto di Nikola Tesla. Il lungometraggio narra la vita del grande scienziato “dimenticato”: dal suo arrivo negli Stati Uniti al suo rapporto turbolento con Thomas Edison e quello con il grande capitalista J.Morgan, interpretato qui da uno straordinario Orson Welles.

Il film è molto bello, un po’ lento in alcune sue parti, ma sinora è l’unico documentario-biografia su questo straordinario inventore e sicuramente vi farà capire meglio la sua intelligente sensibilità.
Purtroppo il film è parlato in inglese e solo sottotitolato in italiano (su truveo.com lo trovate per intero, mentre su Youtube è possibile trovarlo ma diviso in più parti), ma secondo me non incontrerete nessun problema perché vi affascinerà come nessun altro film hollywoodiano.

Per terminare questa dissertazione sul genio dimenticato Tesla, mi pare giusto terminare questo articolo ricordando la frase che era solito dire e che può riassumere degnamente il suo essere:

La scienza non è nient’altro che una perversione se non ha come suo fine ultimo il miglioramento delle condizioni dell’ umanità.

Tag:alimentazione, cellulare, documentario, energia, etere, Film, nokia, scienza, tesla, wireless
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Mag 29 2009

Il misterioso legame tra i fiumi e il Pi Greco raccontato da Alessandro Baricco e Simon Singh e speculazioni sulla soluzione di questo enigma

Posted by Antonio Troise
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La scuola spesso insegna la matematica in maniera nozionistica, non riuscendo quasi mai ad infondere negli studenti quella curiosità, a tratti infantile ma comunque pura, che ha caratterizzato gli stessi matematici dei secoli scorsi, in grado di far iniziare tutte le domande con la parola “perché” e di riempire le giornate di quel meraviglioso stupore che anima gli occhi dei bambini. Forse è per questo che la matematica, così come viene vista, risulta davvero difficile da digerire.

Oggi, però, voglio proporvi un viaggio nella matematica visto da due scrittori diversi: lo stesso argomento trattato da due persone culturalmente diverse ma che hanno in comune la stessa meravigliosa passione per il bello delle cose. Quindi, tenterò di spiegarvi come gli scienziati possano essere così vicini alla spiegazione finale senza però riuscire ancora a decifrarla definitivamente.

L’argomento è la relazione dei fiumi con il pi greco e il primo scrittore che vi racconterà di questa appassionante curiosità è Alessandro Baricco, in uno dei suoi più famosi libri “City“, che con il suo solito stile narrativo, accattivante e coinvolgente, vi parlerà di questa inscindibile unione tra fiumi e pi greco, tra natura e matematica il tutto rapportato con l’essere umano.

[…] anche se mi sforzo, mi viene solo in mente quella storia dei fiumi, se proprio voglio trovare qualcosa che mi faccia digerire tutta questa faccenda, finisco per pensare ai fiumi, e al fatto che si son messi lì a studiarli perché giustamente non gli tornava ‘sta storia che un fiume, dovendo arrivare al mare, ci metta tutto quel tempo, cioè scelga, deliberatamente, di fare un sacco di curve, invece di puntare dritto allo scopo, devi ammettere che c’è qualcosa di assurdo, ed è esattamente quello che pensarono anche loro, c’è qualcosa di assurdo in tutte quelle curve, e così si son messi a studiare la faccenda e quello che hanno scoperto alla fine, c’è da non crederci, è che qualsiasi fiume, proprio qualsiasi fiume, prima di arrivare al mare fa esattamente una strada tre volte più lunga di quella che farebbe se andasse dritto, sbalorditivo se ci pensi, ci mette tre volte tanto quello che sarebbe necessario, e tutto a furia di curve, appunto, solo con questo stratagemma delle curve, e non questo fiume o quello, ma tutti i fiumi, come se fosse una cosa obbligatoria, una specie di regola uguale per tutti, che è una cosa da non credere, veramente, pazzesca, ma è quello che hanno scoperto con scientifica sicurezza a forza di studiare i fiumi, tutti i fiumi, hanno scoperto che non sono matti, è la loro natura di fiumi che li obbliga a quel girovagare continuo, e perfino esatto, tanto che tutti, e dico tutti, alla fine, navigano per una strada tre volte più lunga del necessario, anzi per essere esatti, tre volte virgola quattordici, giuro, il famoso pi greco, non ci volevo credere, in effetti, ma pare che sia proprio così, devi prendere la loro distanza dal mare, moltiplicarla per pi greco e hai la lunghezza della strada che effettivamente fanno, il che, ho pensato, è una gran figata, perché, ho pensato, c’è una regola per loro vuoi che non ci sia per noi, voglio dire, il meno che ti puoi aspettare è che anche per noi sia più o meno lo stesso, e che tutto questo sbandare da una parte e dall’altra, come se fossimo matti, o peggio smarriti, in realtà è il nostro modo di andare diritti, modo scientificamente esatto, e per così dire già preordinato, benché indubbiamente simile a una sequenza disordinata di errori, o ripensamenti, ma solo in apparenza perché in realtà è semplicemente il nostro modo di andare dove dobbiamo andare, il modo che è specificatamente nostro, la nostra natura, per così dire, cosa volevo dire?, quella storia dei fiumi, si, è una storia che se ci pensi è rassicurante, tanto che ho deciso di crederci […]

Da “City” di Alessandro Baricco, editore Rizzoli

Il secondo scrittore è Simon Singh, specializzato nella divulgazione scientifica, che, nel suo primo libro di successo “L’ultimo teorema di Fermat“, racconta di questo rapporto tra scienza e natura in maniera più o meno analitica e precisa. Non spiega il perché vi sia questo comune legame ma ci svela, con il suo stile semplice e romanzato che contraddistingue da sempre i suoi libri, lo studio di uno scienziato della Università di Cambridge, Hans Stolum, che, nel 1990, scoprì questa curiosa relazione.

“[…] Un particolare numero sembra determinare la lunghezza dei fiumi che formano meandri. Il prof Hans Stolum, uno scienziato della terra dell’università di Cambridge, ha calcolato il rapporto tra la lunghezza effettiva dei fiumi dalla sorgente alla foce e la loro lunghezza in linea d’aria. Anche se il rapporto varia tra un fiume e un altro, il valore medio è leggermente superiore a 3, cioè la lunghezza effettiva è circa 3 volte maggiore della distanza diretta in linea d’aria. In realtà il rapporto è circa 3,14 , che è il valore approssimato di pi greco ossia del rapporto tra la circonferenza e di diametro del cerchio.
Nel caso dei fiumi, pi greco è il risultato di una battaglia tra l’ordine e il caos. Einstein fu il primo a suggerire che i fiumi tendono a seguire un percorso sempre più tortuoso perché la corrente , essendo più veloce sulla parte esterna di una curva, produce un’erosione maggiore sulla sponda corrispondente, cosi che la curvatura in quel punto aumenta. Più accentuata è la curvatura, più forte è la corrente sulla sponda esterna e di conseguenza maggiore è l’erosione. […] L’equilibrio tra questi due fattori opposti conduce a un rapporto medio che vale pi greco tra l’effettiva distanza in linea retta tra la sorgente e la foce. Il rapporto di pi greco si trova più comunemente in quei fiumi che scorrono attraverso pianure che hanno un dislivello molto tenue, come i fiumi in Brasile o nella tundra siberiana. Pitagora comprese che i numeri erano celati in tutte le cose, dall’armonia musicale alle orbite dei pianeti.”

Da “L’ultimo teorema di Fermat” di S. Singh, editore Rizzoli

Spero che questo piccolo viaggio tra scienza, natura e numeri vi abbia appassionato. Io ho entrambi i libri che ho citato e quando ho letto “L’ultimo teorema di Fermat“, mi sono subito ricordato della citazione di Baricco (che lessi qualche anno prima) e sono rimasto affascinato da come una cosa curiosa come questa possa essere raccontata in due modi così diversi ma al contempo appassionante. E’ per questo che ho voluto rendervi partecipi di questa mia piccola digressione matematica.
Ma oggi, farò di più, e tenterò di spiegarvi, l’apparente mistero che lega inscindibilmente i fiumi e il pi greco.

Una possibile spiegazione

Come avrete notato nessuno dei due scrittori ha spiegato ancora come mai sembra esserci questa relazione tra fiumi e pi greco. Io penso che la soluzione sia potenzialmente semplice ma al contempo non così intuitiva come si può credere.
Un fiume nasce dalla sorgente (punto A) alla foce (punto B). In linea d’aria questo si traduce in una linea retta che va dal punto A al punto B.

Fiumi e Pi Greco - 1

Ovviamente, come noto, un fiume non compirà mai un tragitto in linea retta, bensì un percorso più o meno tortuoso (sinuosity) che potrà dipendere da diversi fattori, come le asperità del terreno, la sua pendenza e i vari ostacoli che si potranno incontrare lungo il tragitto. Se disegniamo il percorso di un fiume qualsiasi confrontandolo con quello che avrebbe dovuto avere in teoria per percorrere la strada più corta (ovvero, compiendo un moto inerziale e unidimensionale, in linea retta), avremo un percorso che sa un po’ di moto caotico di tipo browniano.

Fiumi e Pi Greco - 2

E ora, entra in ballo la teoria delle probabilità (in particolare il concetto che asserisce che la frequenza tende ad assumere valori prossimi alla probabilità teorica), poiché maggiore è la lunghezza del percorso, e quindi della linea retta AB, maggiori sono le probabilità che il percorso che percorrerà il fiume sia della stessa lunghezza nella parte superiore della linea (area viola) e nella parte inferiore (area verde).

Fiumi e Pi Greco - 3

Inizialmente ho subito pensato, in uno slancio di semplicismo, che in un fiume idealmente infinito, se uniamo tutti i micro-percorsi delle due aree, avremmo avuto (almeno per come riuscivo ad immaginare) che le due parti si potevano trasformare in due semicerchi uguali che messi insieme, ovviamente, formavano un cerchio.

Fiumi e Pi Greco - 5

A questo punto, in nostro aiuto, interviene la geometrica euclidea che ci insegna che la circonferenza di un cerchio è pari a:

C=2 * π * r

Dato che 2r altro non è che il diametro del cerchio e, nel nostro caso, la lunghezza della linea retta AB,

2r = AB

E’ evidente che, per fiumi idealmente infiniti, e in pratica molto lunghi, il rapporto tra Circonferenza (lunghezza reale del fiume) e il diametro (la linea retta ideale AB) sia proprio uguale a pi greco!

C/2r = π = 3,14

Questo per un fiume idealmente infinito; ovviamente lo stesso può avvenire, con uno scarto di errore minimo, per fiume molto lunghi (come il Po, il Mississipi o il Rio delle Amazzoni), mentre potrebbe non verificarsi per i fiumi più corti. Ma questa non è una legge: è solo una probabilità che si verifichi perché se un fiume molto lungo attraversa una zona morfologicamente ricca di ostacoli da una sola lato di quella famosa area che traccia la nostra ipotetica linea retta, i nostri calcoli potrebbero non tornare. Infatti, lo stesso scienziato Hans-Henrik Stolum citato da Simon Singh affermava che il rapporto di pi greco si trova più comunemente in quei fiumi che scorrono attraverso pianure che hanno un dislivello molto tenue, come i fiumi in Brasile o nella tundra siberiana.

Il problema, però, risulta molto più complesso di questa mia prima intuizione che, per quanto affascinante e semplice, risulta fallata in una sua parte fondamentale: come dimostrare che si formano due semicerchi? In teoria, quello che è certo è che si formano due aree con la stessa superficie, ma non è detto che il percorso ottenuto sia, nel complesso, circolare. Anzi, a logica, dovrebbe essere un percorso altamente frastagliato, ovvero, che presenta una serie irregolare di sporgenze e rientranze. Quindi, si potrebbe forse asserire, che il percorso potrà essere di qualunque forma (frastagliatura) l’importante è che sia uguale in basso e in alto, e che anche l’area sia la stessa.

Ed è qui che riscontriamo l’inadeguatezza delle misure euclidee per descrivere questo soggetto, divenuto complesso, come un fiume, che tende quasi a diventare un frattale. E quale è la caratteristica di alcuni frattali? Il perimetro di molti frattali può tendere a infinito, mentre l’area resta finita! Infatti, nella realtà il concetto di lunghezza presenta dei limiti quando vogliamo misurare una linea estremamente irregolare.
Mandelbrot si era posto il problema con la sua famosa domanda: “Quanto è lunga la costa della Bretagna?“. Se si segue il contorno della costa si vede che esso è molto frastagliato. Se cerchiamo di essere sempre più precisi , visto che ad ogni passo troviamo sempre le stesse irregolarità, vediamo che la misura non converge verso un ben definito valore ma anzi, aumenta (anche se, in questo caso, non possiamo prevedere di quanto!)

Se misuriamo la distanza fra due punti in linea d’aria, troveremo una certa lunghezza:

Costa frattale - 1

Se misuriamo la distanza tra gli stesso due punti, ad esempio, a grandi passi, ecco che troviamo una lunghezza maggiore:

Costa frattale - 2

Più cerchiamo di aumentare la precisione e più la lunghezza aumenta:

Costa frattale - 3

La lunghezza di un tratto di costa non potrà essere infinita, perché non potremo dividere indefinitamente i tratti da misurare, ma l’andamento delle successive misurazioni ricorda quello del calcolo del perimetro di un frattale nei successivi passi. In effetti l’affermazione di Mandelbrot voleva mettere in evidenza la natura dei frattali riferendosi all’immagine familiare di una costa frastagliata.

La spiegazione di Hans Stolum

In effetti, la teoria dei frattali a cui ero giunto (insieme a Davide mentre si ragionava sulla possibile spiegazione del legame fiumi-pi greco) risulta essere la strada più semplice per raggiungere la meta. Dopo qualche mio girovagare su internet, infatti, ho trovato una spiegazione (questo il documento in formato Word) di Hans Stolum sul legame tra i fiumi e il Pi Greco, che ha cercato di spiegare questo relazione definendo il fiume come un “sistema dinamico debolmente caotico” (weakly chaotic dynamical system) adducendo al fatto che le ripetitività dei pattern di un fiume possono far pensare ad un sistema frattalico. Con delle simulazioni, hanno potuto calcolare che la sinuosità (sinuosity), ovvero il rapporto tra la lunghezza effettiva e quella ideale in linea retta, può variare da un minimo di 1 ad un massimo di circa 3.5, con un valore significativo di 3.14. Ovviamente nessuno è riuscito ancora a definire bene la “formula del fiume” ma la teoria della teoria del Caos sembra la strada più interessante da percorrere.

L’essenza della Matematica

La Matematica, con la sua teoria dei numeri in primis, ha affascinato per secoli, le più grandi menti che l’umanità abbia mai potuto avere. E scoprire la relazione che sta alla base dei numeri per molti costituisce il fine ultimo delle ricerche di questi uomini eccelsi. Tra questi mi piace citare Ramanujan, un matematico unico con una straordinaria intuizione nel cogliere architetture numeriche con estrema facilità, tanto che un giorno scoprì una relazione che lega, attraverso una meravigliosa frazione continua, tre numeri fondamentali: phi, la sezione aurea ed il famoso pi greco.

L

In molti vedono in questa equazione, uno stretto legame, che passa attraverso l’infinito, tra l’irrazionale phi ed il trascendente pi greco! E’ facile quindi pensare che tra frattali e pi greco possa coesistere una analogo legame in una equazione non ancora scoperta!

Se per molti vedere questi legami segreti possa sembrare solo il frutto di una semplice pareidolia dei numeri, in grado di trovare un finto ordine in sequenza numeriche caotiche, per altri è la base stessa del loro essere scienziati. Porsi davanti ad un mistero e cercare di risolverlo, è lo stesso motivo per cui in molti svolgono con passione le proprie parole crociate. Solamente che i matematici si trovano di fronte un enorme scacchiera con tutti quadrati bianchi, senza definizioni e numeretti, ma solo qualche tassello riempito con qualche costante matematica o funzione. Il loro compito è riuscire a combinarli tutti insieme in modo da riempire coerentemente questo enorme cruciverba che altro non è che il nostro universo. La loro impresa può sembrare ardua, forse senza fine, ma non per questo meno degna di essere menzionata.

Come disse Galileo Galilei:

La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i carattere, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.

Galileo Galilei, Il saggiatore, 1623

Capire la matematica è capire la natura stessa, perché la matematica è il miglior linguaggio che conosciamo per poterla interpretare: i numeri primi, la successione di Fibonacci, i frattali, il pi greco, sono solo alcuni esempi di matematica che agisce nel nel mondo della natura. Dalla spirale logaritmica della conchiglia del Nautilus all’esagono delle cellette dell’alveare, dalla stella o sei punte del cristallo di neve alla geometria del sistema solare, sono tutti affascinanti esempi di come la Natura possa risolvere e costruire in maniera così egregia e semplice la propria stessa essenza!

Tag:baricco, cultura, fibonacci, frattale, infinito, Libri, mandelbrot, Matematica, numeri, pareidolia, scienza
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Ott 10 2008

Da Heroes a Jekyll, come l’evoluzione dell’uomo può fare salti enormi o fermarsi per sempre. Considerazioni sulla teoria shock di un genetista: l’evoluzione dell’umanità si è conclusa!

Posted by Antonio Troise
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Nel terzo episodio di Jekyll, una miniserie britannica su una versione moderna di Dottor Jekyll e Mr. Hide, al minuto 21′ 33” uno dei personaggi se ne esce con questa affermazione che mi colpì molto:

Un superuomo… La specie umana ha smesso da tempo di evolversi… lo hai dimenticato? Cambiamo il mondo, non cambiamo più noi stessi! Ma a quale costo? I millenni passano e l’Homo Sapiens rimane immutato, inesplorato, secolo dopo secolo … ed ecco che un giorno il Dottor Jekyll beve una pozione. E sai cosa accade? La vita si riaccende in questo mondo!

Nello specifico si stava mettendo in luce il fatto che, da quando l’uomo ha iniziato a cambiare il mondo, l’evoluzione non aveva più la stessa importanza dei millenni passati. Questo perché non era l’uomo che si adattava al mondo, ma tutto il mondo che mutava intorno ad esso. L’ingresso nel mondo di un Mr.Hide, di un vero superuomo (nell’ottica della serie televisiva), altro non faceva che stravolgere l’ordine costituito provocando una vera e propria rivoluzione evoluzionistica.

L’evoluzione umana si è fermata

Ebbene, o voluto riportare questo stralcio, perché proprio in questi giorni sta uscendo la notizia shock che l’evoluzione della specie umana è finita! Infatti, secondo il professor Steve Jones dell’University College di Londra, negli ultimi decenni l’evoluzione della nostra specie starebbe rallentando a causa delle migliorate condizioni di vita (benessere, abbondanza di cibo, riscaldamento nei periodi freddi, etc) e dei progressi della medicina (vaccinazioni di massa preventive), fattori che non permettono più che i “meno adatti” soccombano, selezionando di conseguenza solo i più forti (o almeno è quello che avviene nei paesi industrializzati).

Evoluzione futuro uomo

Inoltre, oggigiorno, non esistono più popolazioni isolate, e le razze si mescolano continuamente; un effetto indotto direttamente dalla globalizzazione che porta ad un conseguente ed inevitabile continuo rimescolamento dei geni, non permettendo quindi a eventuali mutazioni di rafforzarsi in gruppi chiusi.

Infine, visto che l’età media dei padri occidentali si attesta sui 29 anni, rispetto al passato, è diminuito il numero degli uomini che fanno figli in età avanzata e quindi, di conseguenza, vi sono anche meno “errori” genetici.

Insomma, da un certo punto in poi, dopo l’homo sapiens-sapiens, l’umanità ha smesso di evolversi fisicamente, per intraprendere il non meno difficile il cammino della conoscenza. In definitiva, quindi, sembrerebbe che gli esseri umani non siano più soggetti al principio della “sopravvivenza del più adatto”, perché le forze che sospingono l’evoluzione della specie, come la selezione naturale e la mutazione genetica, non giocano più un ruolo importante nelle nostre vite, e, in alcuni casi, sono del tutto scomparse.

Quale sarà il futuro dell’uomo?

E così, quando nei racconti di fantascienza, si immaginava un mondo futuristico di superuomini, ovvero di esseri umani più alti, più forti, più belli, più intelligenti e praticamente perfetti, forse ci si sbagliava. Secondo il genetista Steve Jones, un simile scenario è sbagliato: “L’evoluzione dell’uomo si è conclusa, è finita, terminata! Tra un milione di anni o più avremo lo stesso aspetto, le stesse caratteristiche, che abbiamo oggi“. Come a dire che quello che siamo ora, anche se stento a crederci, è il modello definitivo, il risultato finale, l’approdo ultimo di quattro miliardi di anni di tenace, paziente, incessante sforzo per migliorare gli organismi viventi!

Origine della specie

E’ anche vero, però, che molti altri scienziati tendono a ricordare che l’evoluzione della specie dipende da fattori spesso imprevedibili, e poiché non sappiamo che cosa accadrà sulla terra nel prossimo milione di anni, o perfino nel prossimo anno, è impossibile affermare che la specie umana non subirà più mutazioni.
Citando una frase di Mohinder Suresh della serie tv Heroes:

L’evoluzione è un processo imperfetto e spesso violento. Una battaglia tra ciò che esiste e ciò che deve ancora nascere. Tra le doglie di questo parto, la morale perde significato. Il conflitto fra il bene e il male si riduce a una scelta elementare: sopravvivere o soccombere.

e

Quando l’evoluzione seleziona i suoi agenti non è indolore. L’unicità ha sempre un costo; si può essere costretti a compiere azioni contrarie alla propria natura… e all’improvviso, il cambiamento che si pronunciava esaltante si rivela un tradimento. Può sembrare crudele ma lo scopo non è altro che l’autoconservazione, la sopravvivenza…
Questa forza… l’evoluzione… non ha sentimenti, come la terra conosce solo i crudi fatti della lotta della vita con la morte. Si può solo sperare che alla fine dopo aver soddisfatto con fedeltà i suoi bisogni, rimanga qualche traccia di quella vita che un tempo coniscevano…

Insomma, il futuro dell’uomo sembra essere in bilico tra scenari come quelli proposti da film come X-Men o serie tv come Heroes, e, perché no di Jekyll, in cui l’evoluzione, del tutto inaspettatamente, prende il sopravvento con dei cambiamenti rivoluzionari, e quello proposto dal genetista britannico, accontentandoci di essere quello che siamo, per sempre!

Esiste il problema della evoluzione?

L’evoluzione della nostra specie è da sempre considerata un argomento scottante in quanto l’uomo, difficilmente, riesce a riconoscere se stesso come animale. Ma in realtà lo è, e la sua evoluzione è alla stessa stregua di quella di altri organismi e non differisce minimamente da quella di specie come squali, formiche o batteri, poiché tutti sono il risultato di milioni di anni di evoluzione, che ha adottato strategie diverse ma con le stesse finalità: sopravvivere e tramandare nel tempo la propria specie!

Origine della specie

La maggior parte delle persone, però, considera l’uomo come quell’essere vivente che ha saputo evolversi e migliorarsi, tanto da potersi elevare su tutto il regno animale e distinguersi a tal punto da sottomettere l’intero pianeta! Ma in realtà, se, invece, impariamo a vedere l’evoluzione come un semplice cambiamento, e non come ad un miglioramento della specie (anche se a volte può risultare la stessa cosa), allora forse impareremo a pensare che la nostra specie non è più evoluta di tante altre, e forse quesiti come quello che si è posto lo scienziato inglese, non avranno più modo di esistere.

Tag:evoluzione, fantascienza, Film, genetica, heroes, Jekyll, Mr.Hide, scienza, Steve Jones, superuomo, tv
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Set 30 2008

Il golf e le lenti colorate: come il colore di una lente può migliorare le prestazioni di un giocatore

Posted by Antonio Troise
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Sapevate che, come per i nuotatori è importante indossare costumi fluidodinamici (come il famoso Speedo), anche per i giocatori di golf è importante prendersi cura dei propri occhi con degli adeguati occhiali da sole, non solo perché sono lo strumento principale di qualsiasi golfista professionista e non, ma anche perché possono compromettere, almeno a livello agonistico, una partita. Può sembrare uno scherzo, ma, come oggigiorno è vero che un costume può essere in grado di decidere una vittoria o una sconfitta (pensate che da Febbraio a Maggio 2008 il nuovo Speedo Fastskin LZR Racer si è aggiudicato 38 record mondiali sui 40 stabiliti nel periodo), analogamente può accadere se si indossano un paio di occhiali da sole, o almeno è quello che si è concluso dopo alcuni interessanti test sul green.

Migliorare la percezione con le lenti colorate

Golf Come è noto, il golf richiede un’accurata percezione visiva: l’allineamento, la lettura del “green”, lo studio e la valutazione della distanza sono in stretta relazione con l’abilità visiva. E’ evidente, quindi, che un occhiale da sole può, in teoria, aiutare le prestazioni, non solo perché, con la sua forma avvolgente, aiuta a proteggere gli occhi dagli agenti atmosferici, come vento e polline, ma anche perché, come si è dimostrato, l’uso di occhiali da sole di determinati colori può migliorare sensibilmente le prestazioni dei giocatori di golf. In particolare, ed è questa la cosa curiosa, alcuni colori di lenti hanno dato maggiori benefici rispetto ad altri.

Addirittura, le lenti grigie, da sempre consigliate come le migliori per il gioco del golf, sono state indicate come le peggiori rispetto a tutte le altre. È noto, infatti, che il grigio appiattisce l’immagine e viene preferito per la guida della macchina piuttosto che per giocare a golf, mentre le altre tinte, grazie alle differenti percentuali di assorbimento della luce, sono maggiormente apprezzate nei casi di cambio di focalizzazione e concentrazione, come accade in diverse competizioni sportive. In particolare hanno eccelso, anche in diverse condizioni metereologiche, le colorazioni Vermillion (tende verso il rosso), Cinnamon (tende verso il verde) e Citrus (tende verso il giallo). Addirittura queste ultime sono state indicate dai più come le lenti più precise nella lettura delle pendenze dei “green”, mentre le Gray davano l’impressione di togliere luminosità e sicurezza nella distanza e profondità.

Lenti a contatto colorate per i giocatori di golf

Nike MaxSight E’ vero che queste analisi sono frutto di semplici valutazioni soggettive degli esaminati e che, determinare con precisione, l’effettivo apporto delle lenti colorate nel migliorare la performance sportiva, è molto difficile. E’ altrettanto vero, inoltre, che, spesso, la scelta di una determinata lente può dipendere da diversi fattori, come il gusto, l’età o il colore degli occhi o, perché no, anche il tipo di montatura (problema che si risolverebbe con l’adozione di semplici lenti a contatto). Se questo genere di analisi venissero confermate, allora verrà probabilmente il giorno in cui, i golfisti più temerari e alla moda, nel momento in cui dovranno effettuare un tiro, oltre che a scegliere il tipo di bastone da golf, dovranno scegliere anche che colore di lente a contatto indossare! E l’idea potrebbe non essere neanche troppo azzardata, perché uno dei vantaggi delle lenti a contatto colorate è che anche coloro che non hanno problemi di vista le possono usare (in effetti sono nate principalmente per motivi estetiti). Inoltre, dato che lo sport del golf non è di certo dei più movimentati, e la possibilità di perdere una lente è molto bassa, sarà anche possibile indossare lenti a contatto rigide e, per migliorare l’acuità visiva, i golfisti potranno scegliere lenti a contatto multifocali adatte allo scopo.

Ma non mancherà neanche le possibilità di scelta dei colori dato che di lenti a contatto colorate ne esistono di tutti i tipi, come è possibile constatare su Lentiacontattoonline.it dove ho trovato alcuni modelli che hanno anche la protezione anti-UV incorporata, ovvero in grado di proteggere dai raggi solari nocivi, requisito direi necessario per chi è solito giocare tutto il giorno al sole e non vuole per forza usare gli occhiali da sole.

Lenti a contatto antiabbagliamento

Addirittura la Nike, tempo fa, aveva lanciato le lenti a contatto Nike MaxSight, in grado di migliorare le prestazioni visive e di attenuare i fastidiosi disturbi legati all’abbagliamento del sole: disponibili in due cromie, verdastra e ambra (entrambe con filtri UVA e UVB), le prime erano appunto ottime per gli sport praticati sull’erba, come golf, training e corridori. Insomma, sarebbe come indossare occhiali da sole, senza montatura!

Interessante anche le spiegazioni che danno sul sito della Nike Vision: con la tecnologia della tinta Nike Max Golf Tint è possibile dare maggiore risalto alla pallina che sta sull’erba. Infatti, se l’erba riflette il verde e il rosso, e le palle da golf riflettono il blu, questa tecnologia permette ai colori di questi importanti dettagli di passare attraverso le lenti, riducendo l’affaticamento degli occhi e migliorando la nitidezza, in modo da rendere il contorno del green più visibile e risaltando la palla contro l’erba, il bunker di sabbia o il cielo.

Nike Max Golf Tint

Un altro tipo di lente dedicata ai giocatori di golf, è quella che usa la tecnologia del Visiball Golf Ball Finders, ovvero uno speciale filtro blu che elimina la maggior parte dello spettro visibile, lasciando solamente la regione verso gli i colori blu-viola, in modo da poter individuare con estrema facilità le palline da golf dove non sono perfettamente visibili, come, per esempio, quando sono in mezzo al rough (erba alta) o nei boschi (tenete presente che un giocatore ha solo 5 minuti per trovare la pallina altrimenti è palla persa e si paga una penalità – thanks wolly)

nel green, che non si confonderanno più con lo sfondo, ma risalteranno come chiazze bianche su uno sfondo bluastro. Ma queste lenti, più che per il giocatore di golf, sembrano più adatte ad un Caddy!

Golf Ball Finder
Il futuro delle lenti a contatto

E, per finire questo excursus sulle lenti a contatto e il mondo del golf, verrà forse il giorno in cui sarà possibile usare lenti a contatto con display incorporato, in grado magari di effettuare misure telemetriche e calcolare con precisione millimetrica distanza dalla buca e velocità del vento.

Lenti a contatto con display

Non si tratta poi di fantascienza, almeno non dopo l’invenzione del professor Babak Parviz, docente di ingegneria elettronica dell’Università di Washington che, con l’integrazione di uno schermo in un paio di lenti a contatto (grazie alle nanotecnologie e alla tecnica del “Self-Assembly“, letteralmente auto-assemblaggio, termine usato per descrivere la creazione di strutture organizzate tramite interazione tra i componenti stessi, senza direzione esterna), ha rivoluzionato l’interazione tra uomo e macchina, tanto parlare, ragione, di realtà aumentata. Peccato che, al momento, il funzionamento della lente in tutta sicurezza (per il nostro occhio) è garantita per soli 20 minuti!

Tag:fantascienza, golf, lenti, Nike, occhiali, scienza, Speedo, Tecnologia
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Lug 17 2008

Daredevil e l’algoritmo per vedere con i suoni: quando la realtà supera la fantasia dei fumetti

Posted by Antonio Troise
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Uno dei supereroi più affascinanti dell’universo Marvel è sicuramente Devil, che, in seguito ad un incidente radioattivo che gli toglie il dono della vista, grazie al suo udito super sviluppato ha il cosiddetto Senso Radar incorporato, ovvero la capacità di percepire il mondo circostante come ombre, create dalle onde sonore che lo circondano.

Se avete visto anche il film omonimo Daredevil, sicuramente vi ricorderete di uno dei momenti più commoventi della pellicola: la famosa scena della pioggia. In una New York volutamente spettrale e piovosa, le gocce che cadono sul viso della bella Elektra, permettono a Matt/Daredevil di “guardare”, elaborando il rumore delle gocce, il viso dell’amata. Di fatto, le gocce di pioggia, effettuano una sorta di precisa quantizzazione della realtà che fino ad allora era percepita come un mondo fatto di sole ombre e silhouette.

Daredevil Pioggia

La scena viene sviluppata molto bene dal regista perché da chiaramente l’idea di una visione messa a fuoco dal suono di migliaia di gocce d’acqua che, cadendo, scolpiscono, in un susseguirsi di lampi di luce, il mondo circostante: è solo in queste giornate piovose che il supereroe riesce a vedere il mondo quasi come se avesse riacquistato la vista.

Daredevil Pioggia

Dopo questa premessa forse vi sarà più semplice capire quello che alcuni ricercatori stanno sviluppando e forse riuscirete a viaggiare oltre con la fantasia. Cosa succederebbe se anche gli esseri umani, un po’ come i pipistrelli, potessero vedere con l’udito?

L’ecolocalizzazione dei pipistrelli

Ebbene, è questa strada che i ricercatori dell’Università di Tubinga, in Germania, stanno percorrendo, sfruttando, appunto, la peculiarità dei pipistrelli. Questi mammiferi, infatti, benché praticamente ciechi, riescono a vedere anche molto meglio di noi, grazie al meccanismo di ecolocalizzazione, ovvero quella capacità che hanno alcuni animali di emettere suoni nell’ambiente e decifrare gli echi che rimbalzano.

Studiando i biosonar dei pipistrelli, i ricercatori hanno programmato un algoritmo che permette di definire la realtà circostante semplicemente “ascoltandola”, decifrando cioè gli echi sonori prodotti dallo scontro tra le vibrazioni e l’oggetto. Tutto senza far ricorso alla vista, utilizzando un sistema sonoro modulato proprio sulla base degli ultrasuoni emessi dai pipistrelli.

L\'eco dei pipistrelli Tutto è partito da una semplice domanda: come fanno i pipistrelli a individuare i propri frutti preferiti anche in mezzo a rami, foglie e altre bacche per loro non commestibili? Grazie all’ecolocalizzazione questi e altri animali sono in grado di determinare non solo la direzione in cui stanno andando, ma anche se in giro ci sono o meno predatori, insetti prelibati o frutti, pur in mezzo a una vegetazioni fittissima.
Questi chirotteri, infatti, sono in grado di inviare particolari segnali a ultrasuoni e ne attendono l’eco per capire a quale distanza si trovino gli ostacoli, gli insetti o la vegetazione. Nel caso delle piante, i pipistrelli sono anche in grado di comprendere verso quale specie di vegetale si stiano avvicinando valutando la rifrazione dei loro ultrasuoni sul fogliame. Un sistema molto sofisticato, che consente ai mammiferi volanti di dirigersi con sicurezza verso le piante da cui traggono generalmente il loro nutrimento.

Riconoscere i tratti somatici dei criminali anche al buio

Questa nuova tecnologia, se perfezionata, permetterebbe, oltre che a comprendere con maggior precisione il comportamento di numerose specie di pipistrelli, anche di distinguere i caratteri somatici di un criminale anche in mezzo alla folla. Una volta “registrati” i connotati e collegati a una particolare vibrazione sonora, diventerebbe possibile diffondere i suoni in mezzo alla gente e decifrare le vibrazioni di ritorno, fino a incontrare quella corrispondente al volto del ricercato.

La novità più grande sarebbe, come intuibile, che questo particolare algoritmo sensoriale non si baserebbe sulla vista, dimostrandosi quindi molto efficace anche in assenza di luce, nel buio più totale. La maggior parte dei sistemi di riconoscimento computerizzati, infatti, sono basati sulla visione, con tutti i problemi di precisione nella fase di riconoscimento specie in cattive condizioni di luce. Un sistema di ecolocalizzazione siffatto, sarebbe, quindi, fondamentale per acciuffare un criminale sospetto che cammina di notte per strada, magari confuso tra altre persone e anche a notevoli distanze.

Al momento, però, la tecnica è stata testata solo sul mondo vegetale; infatti, gli studiosi sono stati capaci di distinguere tra loro le cinque specie con sorprendente accuratezza, tenendo conto del tempo e della frequenza dei riflessi sonori, che variavano a seconda della grandezza, del numero e dell’età delle piante.

A quando le applicazioni sull’uomo?

Alcuni ritengono, però, che forse, in futuro, sarà possibile dare nuove speranze ai non vedenti, un po’ come è accaduto nel mondo fantastico di Devil. Il problema più grande che dovranno risolvere i ricercatori, però, per poter applicare questa tecnologia anche agli essere umani, è la frequenza degli ultrasuoni. Infatti, i pipistrelli producono ultrasuoni per mezzo della laringe ed emettono il suono dal naso o, più comunemente, dalla bocca aperta. La frequenza dei suoni prodotti va da 14.000 a più di 100.000 Hz, molto al di là delle capacità dell’orecchio umano, che percepisce suoni con una frequenza che va da 20 a 20.000 Hz.
Ecco perché, secondo il neuroetologo Steven Phelps dell’Università della Florida, questo metodo di ricerca va bene per il pipistrello ma non certo per l’uomo, le cui capacità associative sarebbero inferiori; forse in futuro, con un semplice micro-impianto nell’orecchio, sarà possibile sopperire anche alle limitazioni degli esseri umani, ma a questo punto credo che le applicazioni devieranno, più che dal lato medico, in quello militare, con supersoldati con ecovista!

Tag:acqua, Daredevil, Devil, ecolocalizzazione, Elektra, Film, fumetti, luce, pioggia, pipistrelli, ricerca, scienza, Tecnologia, ultrasuoni
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Lug 3 2008

Il punto della situazione sulle droghe virtuali nei file audio e spiegazione sull’origine del software I-Doser e dei file DRG

Posted by Antonio Troise
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Twilight Zone Ricordo un episodio della serie di fantascienza “Ai Confini della Realtà” in cui gli alieni riescono a trasmettere per radio un segnale subliminale in grado di condizionare il genere umano, tanto da riuscire a modificare il suo DNA e trasformarlo, nel giro di pochi giorni, in una sorta di armadillo pseudo-umano. Lo scopo, si scopre alla fine dell’episodio, è quello di rendere l’umanità in grado di resistere alla radiazioni nucleari di una prossima Terza Guerra Mondiale, garantendo così la sopravvivenza della civiltà sulla Terra. Curiosamente è stato proprio a questo episodio che ho pensato quando il 1 Luglio, ho sentito al TGCOM, la notizia del I-Doser, la droga virtuale che si aggira nei file mp3.
Devo dire, però che, oltre a credere di stare vivendo in un racconto di fantascienza (nel cinema troviamo anche altri esempi, da Morte a 33 giri a Nirvana, in cui il protagonista Jimi Dini è un programmatore che per sbarcare i lunario spaccia anche programmi droghe), ho subodorato il solito allarmismo tipico dei giornalisti nei confronti di internet.

Se siete soliti andare nelle librerie, ogni tanto forse vi sarà potuto capitare di imbattervi in qualche CD New Age che è in grado di farvi rilassare in pochi minuti sfruttando qualche particolare frequenza sonora (battiti binaurali) che interagisce direttamente col nostro cervello, per favorire la meditazione, il sonno o curare il mal di testa. Ma non pensavo che l’ingegneria del suono fosse giunta al punto di creare addirittura delle droghe virtuali. Ma sarà tutta verità o forse è stata condita con troppi elementi creativi?

Le prime notizie

Il TGCOM asserisce che:

Il fenomeno si chiama I-Doser ed è nato negli Stati Uniti e sta sbancando in Europa, dove ha attecchito soprattutto in Spagna, per poi diffondersi in modo rapido anche negli altri paesi. Italia compresa.

Il problema è che nessuno dei miei amici e conoscenti era a conoscenza di questa particolare droga virtuale. Ma neanche i cibernauti della blogosfera, sempre informata di tutto, ne era al corrente. E ciò risulta strano, perché, di solito, se una cosa funziona, sul web ci mette 5 minuti a fare il giro del mondo, anche grazie a canali P2P. Ma anche se nel canali di file sharing è possibile trovare i file per i-Doser, perché nessuno ne ha mai parlato prima? E se era un fenomeno nascosto nei bassifondi di internet, perché parlarne su un telegiornale a diffusione nazionale, tanto da contribuire a diffondere la notizia in pochi giorni? Se il fenomeno è reale ma ancora relegato a pochi, perché parlarne così apertamente mettendo in pericolo i giovani che, si sa, sono curiosi e sicuramente saranno andati a scaricarsi qualche demo di dose?

Le prime apparizioni di I-Doser

Dalle mie ricerche ho scoperto che per esempio, su Yahoo! Answers se ne è parlato circa 3 mesi fa, ma il fenomeno si era fermato li. Su Youtube compare qualche video, presumo tutti frutto di messe in scena, e nel frattempo qualche sito di riferimento era nato, a partire da quello ufficiale in inglese I-Doser.com fino ad arrivare ai nostrani TarantoHipHop e NonApriteQuelPortale, che hanno tentato di spiegare il meccanismo dell’I-Doser.
Ma diciamoci la verità, se non si conosceva il termine, era quasi impossibile venirne a conoscenza!

Oggi, invece, tutti i maggiori quotidiani nazionali ne parlano apertamente, ovviamente copiandosi l’un l’altro, Il Messaggero, Il Tempo, il Corriere della Sera, Panorama e La Stampa.
E questi sono solo alcuni giornali, per non parlare poi della Blogosfera che ha fatto rimbalzare la notizia su più fronti e, più saggiamente della controparte mediatica, è molto più scettica delle conclusioni dei media!

Il principio di funzionamento di I-Doser

Tutti segnalano che l’allarme è stato lanciato dal GAT il Nucleo Speciale Frodi Telematiche della Guardia di Finanza, che ha scoperto la novità nei blog e nei forum dove i giovani si scambiano informazioni (forse è stata colpa di quel tizio che su Yahoo! Answers ha chiesto informazioni?)

Le nuove cyber droghe, infatti, sono normali file in mp3 (in realtà sono file GDR). “Agiscono sulle onde a bassa frequenza – ci spiega il colonnello del GAT Umberto Rapetto – soprattutto quelle che vanno dai 3 ai 30 hertz, ossia le frequenze della fascia di lavoro del cervello.
L’orecchio assorbe questi suoni che non riesce a distinguere e che, nella maggior parte dei casi, sono mescolati a musiche psichedeliche“.
Proprio perchè gioca con diverse lunghezze d’onda e perchè fatto di suoni impercettibili, se ascoltati da un solo orecchio, i file non producono alcun effetto. Di qui la necessità delle cuffie.

[…]

Per ora non è stato accertato quali danni possa arrecare la cyber-droga, nè se dia dipendenza. “Il fenomeno è agli albori”, afferma Rapetto. “Chi diffonde i file sostiene che non ci siano effetti collaterali, che le dosi provocano delle semplici sbornie, ma è bene che a stabilirlo siano i medici.

Ma come funzionano queste droghe virtuali? Una spiegazione semplice ci arriva dal solito sempre informato Paolo Attivissimo che ci spiega che:

Si tratta di binaural beat: due suoni, a frequenze udibili e riproducibili dalle cuffie normali, e leggermente differenti l’uno dall’altro come frequenza: per esempio, uno è a 300 Hz e l’altro è a 307. Ascoltati in cuffia, in modo che uno solo dei due suoni raggiunga ciascun orecchio, producono un terzo suono per battimento.
Per fare un paragone stiracchiato, è come se vi arrivasse un MI in un orecchio e un FA nell’altro e il vostro cervello generasse una nota che è la differenza fra il MI e il FA.

Secondo un’altra fonte sembra che:

Il sistema funziona sulla base dei cosiddetti ‘battiti binaurali‘ (dall’inglese: binaural beats) sperimentati sul cervello negli anni Settanta dal dr. Gerald Oster alla clinica newyorkese Mount Sinai, e che consistono nell’applicare frequenze herziane diverse ai due orecchi per stimolare il cervello a seconda della loro intensita‘. Le frequenze cerebrali vanno da 1 a 4 Hz per il livello Delta, quello del sonno profondo, fino ad un massimo di 30Hz allo stato vigile che corrisponde alla frequenza Beta, passando per Theta e Alfa, uno stato quest’ultimo di semiveglia usato nei sistemi di Controllo Mentale perche’ consente di sincronizzare i due emisferi potenziando l’attivita’ cerebrale.
Le ‘dosi’ proposte da I-Doser si ottengono applicando, con auricolari, alte frequenze asincrone ai due orecchi, per esempio 500 e 510 Hz rispettivamente, causando nel cervello un tono di 10 Hz cioe’ in pieno livello Alfa e favorendo cosi’ gli effetti di alterazione della percezione.

L’origine del software I-Doser e cosa sono i file DRG?

Tutti hanno parlato del I-Doser fino allo sfinimento ma non tutti conoscono bene quale sia la sua origine. Dovete infatti sapere che I-Doser altro non è che un rip di un programma Open Source (GNU GPL v2) chiamato Sbagen in grado di generare onde sonore per il cervello (Brain-Wave generating) capace di rilassare l’individuo che le ascolta. Questa applicazione usa dei preset file con estensione .SBG che possono essere suonati e registrati come file WAV.
Ovviamente dire che sono file MP3 è errato perché, proprio per la natura stessa del formato di compressione audio, usare dei file MP3 significherebbe tagliare la banda di frequenza usata per generare quei fantomatici effetti di cui tutti parlano.

Quello che dovete sapere, quindi, è che la società che ha creato I-Doser altro non ha fatto che rifarsi al modello del software Sbagen e, per evitare che chiunque potesse ascoltare più volte la stessa “droga”, hanno creato un preset file di tipo DRG, che altro non è che un file .SBG criptato e contenente anche uno screenshot e le informazioni sul contenuto della dose! Questo file, di solito, viene venduto ad un prezzo di 5-10 euro, dura circa 45 minuti e, nelle intenzioni dei suo creatori, si può ascoltare una sola volta (appunto come una droga), costringendovi, per ripetere l’esperienza, a ricomprare più volte le dosi.

In realtà, come spesso accade per tutto ciò che ha lucchetti digitali, prima o poi, qualcuno è riuscito a sbloccare le limitazioni dei software e, per questo, è facile trovare versioni craccate di I-Doser e delle dosi ascoltabili senza limitazioni, grazie anche all’ausilio del software open source Sbagen.

E’ solo suggestione come nei placebo?

Con questo articolo non invito nessuno a provare questa “esperienza” perché, oltre a non credere ai fantomatici effetti psicotropi, ho dei seri dubbi sulla effettiva non pericolosità di un ascolto cacofonico di lunga durata (una sessione, ricordiamo, dura circa 45 minuti) sia sull’udito che sul cervello umano.

Comunque, la maggior parte di chi li ha scaricati e ascoltati in cuffia, non ha percepito alcun effetto psicotropo, se non quello di una notevole irritazione (in gergo tecnico, orchiclastia), perché non è musica ma solo rumore fastidiosissimo.

C’è chi asserisce che tutto dipende dalla sensibilità alle onde binaurali della singola persona ma io sospetto che, semplicemente, dipenda dal grado di suggestionabilità individuale. Come nell’effetto placebo, credo che chi ascolta questo rumore di fondo, vedendo il nome della droga, si autosuggestioni e, magari, un semplice cerchio alla testa o uno stato confusionario prodotto dal rumore cacofonico, viene facilmente attribuito al effetto specifico della droga virtuale!

UPDATE: Il programma Le Iene è tornato sulla faccenda con un test pratico condotto su un gruppo di studenti e con un’intervista a Michelangelo Iannone, ricercatore del CNR.
Il lavoro delle Iene lascia ben poco spazio a dubbi sulla natura di quest’allarme gonfiato acriticamente dai media. Se i giudizi di Iannone sono lapidari, quelli degli studenti sono tombali. Il servizio è consultabile su Internet. (via attivissimo)

Tag:blogosfera, compressione, drg, fantascienza, i-doser, mp3, Musica, opensource, p2p, Radio, scienza, Software
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Giu 24 2008

I procrastinatori: comportamenti e strategie dell’arte del rimandare

Posted by Antonio Troise
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E’ interessante vedere come nelle sedi dei luminari della scienza vi sia posto per ogni argomento dello scibile umano: dalla teoria della fusione nucleare a quella, forse più semplice, dei procrastinatori. Ebbene si, è proprio questo fenomeno, molto spesso sottovalutato, che il prof. Michael Bender della Stony Brook University di New York (USA) ha analizzato molto attentamente creando addirittura un algoritmo per valutare quali strategie dovrebbe attuare un procrastinatore per portare a termine il maggior numero di compiti focalizzandosi sulle principali scadenze.

L’articolo, pubblicato sulla rivista scientifica Journal of Scheduling, e messo in luce da bloGalileo, cerca di analizzare la condizione di certi individui che tendono, in maniera cronica, a rimandare a domani tutto quello che potrebbero fare oggi. Per loro si tratta di un vero e proprio stile di vita, di un modo di essere e di vivere il loro tempo, peccato che, come tutti, prima o poi, si troveranno dinanzi alle delle scadenze e giunti al limite saranno obbligati a completare in fretta e furia il loro incarico prima della scadenza definitiva, rischiando, spesso, di non riuscire nel loro obiettivo.

Un grafico temporale su 2 assi cartesiani attività/tempo sarebbe facilmente schematizzabile come una linea che per la gran parte del tempo sarà orizzontale e verso la fine, tenderebbe ad inclinarsi molto rapidamente, quasi asintoticamente, nell’ultimo delta di tempo che precede la scadenza del compito assegnato.

Grafico Attività/Tempo dei Procrastinarori

In definitiva, però, la ricerca svolta da Bender ha dimostrato come non esiste alcuna strategia sufficientemente efficace per consentire a un procrastinatore di portare a termine correttamente tutti i suoi impegni entro le scadenze prefissate. L’unica soluzione per essere efficiente, dunque, sarebbe quella di rinunciare a essere un procrastinatore, ma evidentemente anche questo obiettivo potrebbe essere rinviato.

E voi come vi sentite: procrastinatori, ovvero tendete a rimandare il più possibile quello che dovete fare, oppure siete degli anticipatori, ovvero tendete a svolgere il prima possibile le vostre attività addirittura anticipandole rispetto alla tabella di marcia? Io, da parte mia, penso di essere un mix: dipende dal tipo di attività e di quante ne devo fare in contemporanea e, a volte, anche dall’umore della giornata.

UPDATE Dopo i vostri commenti e appreso che l’arte di rimandare è una cosa abbastanza comune nell’essere umano, ho fatto un giro su Google e ho scoperto che il problema è molto sentito dai più. A cominciare da Benjamin Franklin che, per l’occasione, coniò il noto aforisma: “Non rimandare a domani quello che potresti fare oggi”. Hanno scritto anche libri su come “Non fare lo struzzo! L’arte di non rimandare la soluzione dei problemi per essere più efficienti“. Per finire, ho anche trovato un documento in pdf sui “Dieci modi per non rimandare sempre a domani!“.

Tag:Matematica, scienza
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Giu 5 2008

42, il numero che contiene il tutto: dai tunnel gravitazionali a Douglas Adams passando per Lost

Posted by Antonio Troise
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Pare che questo numero, frutto della fervida immaginazione del celebre scrittore di fantascienza Douglas Adams, ricorra più spesso di quello che si possa immaginare. Se è vero che Google risponda con “42” alla domanda “answer to life the universe and everything” (”la risposta alla vita, all’universo e ad ogni altra cosa”), allora forse c’è una ragione in più che avvalorerebbe questa ipotesi del numero che contiene il tutto.

Se il 42 è presente anche nella misteriosa serie numerica di Lost (i cui numeri possono essere ricavati risolvendo “Il Polinomio di Shaw-Basho” e se trasformate in coordinate potete trovare una piccola isola sperduta nell’oceano Atlantico), è anche vero che questo numero ricorre laddove nessuno prima era riuscito nemmeno ad immaginare.
A ricordarcelo è stato Giavasan:

Immaginate, in linea del tutto ipotetica, di riuscire a scavare un lunghissimo tunnel che da un estremo della superficie terrestre arriva al suo esatto opposto attraversando il centro del pianeta.
Una navicella creata per scivolare in un tunnel di questo tipo non avrebbe bisogno di alcuna propulsione: la prima metà del viaggio sarebbe garantita dall’attrazione gravitazionale, mentre la seconda metà, superato il centro della terra, consisterebbe in una progressiva frenata che la farebbe emergere a velocità zero all’altro estremo della superficie.
A queste condizioni la durata del viaggio è facilmente calcolabile: 42 minuti.

Immaginate ora di collegare con un simile tunnel gravitazionale due città europee, situate quindi sullo stesso lato di un emisfero terrestre. Anche se il centro del pianeta non viene attraversato, il tunnel riuscirebbe ancora a fornire tutta l’energia necessaria al viaggio perché si stenderebbe interamente al di sotto della superficie terrestre.
Certo, la velocità prodotta dall’attrazione gravitazionale sarebbe minore rispetto al viaggio nord-sud dell’esempio precedente, ma, guarda caso, lo è anche la distanza. E indovinate un po’ qual è il risultato di questo controbilanciamento?

“Qualsiasi sia la coppia di città considerate, il tempo impiegato per attraversare il tunnel gravitazionale che le collega è sempre pari a 42 minuti.”

E’ questo ciò che afferma un video di un documentario di History Channel’s – The Universe, Gravity – che è possibile guardare anche su Youtube:

Nonostante l’argomento, come trattato nel documentario, sembra avere un che di sensazionalistico che sembra svalutarne le basi, pare che, in realtà, nel 1965 il matematico Paul Cooper teorizzò, in un esperimento ideale (come i famosi Gedankenexperimenten tanto cari ad Einstein e sulle cui basi è nata la teoria della relatività), che la maniera più veloce ed efficiente di effettuare un viaggio attraverso i continenti sia proprio quello di attraversare direttamente la terra sfruttando (nel caso di assenza di attrito dell’aria e se la Terra fosse una sfera perfetta), appunto, la caduta libera e la conseguente decelerazione gravitazionale. Il tempo, ovviamente, impiegato sarebbe stato di 42 minuti sia se si passasse dal centro della terra sia se si viaggiasse lontani dal nucleo (ma sempre nelle profondità del nostro pianeta).

In realtà, però, come si legge da un articolo del Time, se si effettuano i calcoli più precisamente, si scopre che il tempo impiegato è precisamente di 42,2 minuti Altri dettagli matematici è possibile trovarli qui, dove il tutto viene riportato ad una equazione di un oscillatore lineare.

E’ anche vero però che, se qualcuno pensa che tutto ciò sia la dimostrazione implicita alla geniale e creativa mente di Douglas Adams, deve ricredersi, perché nel 1993, a più di 10 anni dalla pubblicazione della Guida Galattica per Autostoppisti, e dopo centinaia di teorie più o meno fantascientifiche sull’origine del 42, sul newsgroup alt.fan.douglas-adams, l’autore mise chiarezza nel mistero con una breve risposta:

“La risposta è molto semplice. Era uno scherzo. Doveva essere un numero, un normale, piccolo numero, e io scelsi quello. Rappresentazioni binarie, calcoli in base tredici, monaci tibetani sono solo un completo nonsense. Mi sedetti alla scrivania, fissai il giardino e pensai “42 funzionerà”. Lo scrissi a macchina. Fine della storia. “

Certo, forse ora starete pensando che lo scrittore di fantascienza possa essere entrato in empatia con la natura stessa che gli ha comunicato, in una sorta di messaggio onirico, il numero del tutto, o che forse Douglas, avesse letto l’articolo del matematico Paul Cooper, e che più o meno consapevolmente, ne fosse stato influenzato durante la stesura del suo romanzo.

Qualsiasi sia la risposta, resta il fatto che, in definitiva, lo scopo di questo articolo di instillarvi nuovi dubbi e nuove domande è stato pienamente assolto!

Tag:42, documentario, fantascienza, natura, scienza, velocità, Video, youtube
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