Internet of Things, in italiano, Internet delle cose, è un neologismo riferito all’estensione di Internet al mondo degli oggetti e dei luoghi concreti, vista come una possibile evoluzione dell’uso della Rete:
Gli oggetti si rendono riconoscibili e acquisiscono intelligenza grazie al fatto di poter comunicare dati su se stessi e accedere ad informazioni aggregate da parte di altri. Le sveglie suonano prima in caso di traffico, le piante comunicano all’innaffiatoio quando è il momento di essere innaffiate, le scarpe da ginnastica trasmettono tempi, velocità e distanza per gareggiare in tempo reale con persone dall’altra parte del globo, i vasetti delle medicine avvisano i familiari se si dimentica di prendere il farmaco. Tutti gli oggetti possono acquisire un ruolo attivo grazie al collegamento alla Rete.
L’obiettivo dell’internet delle cose è di far sì che il mondo elettronico tracci una mappa di quello reale, dando un’identità elettronica alle cose e ai luoghi dell’ambiente fisico. Gli oggetti e i luoghi muniti di etichette Identificazione a radio frequenza (Rfid) o Codici QR comunicano informazioni in rete o a dispositivi mobili come i telefoni cellulari.
I campi di applicabilità sono molteplici: dalle applicazioni industriali (processi produttivi), alla logistica e all’infomobilità, fino all’efficienza energetica, all’assistenza remota e alla tutela ambientale.
Una delle cose più interessanti che ho sinora sentito su questo nuovo modo di intendere la Rete è una applicazione particolare della Internet delle Cose, riferito però alle piante. A tal proposito vi riporto una intervista che ho sentito in una trasmissione 2024 di Radio 24 e che per comodità vi ho trascritto e adattato qui di seguito.
La teoria
Il Professor Stefano Mancuso direttore del Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale della Università di Firenze, ci parla di come le piante possano essere dei sensori incredibilmente precisi. Dato che la Internet of Things è di fatto una evoluzione basata sulla sensoristica diffusa nelle nostre città, l’idea del Laboratorio di Neurobiologia Vegetale della Università di Firenze è utilizzare anche le piante affinché diventino dei sensori da collegare alla rete internet.
Le piante, contrariamente a quanto siamo stati abituati a pensare, non sono degli organismi passivi (noi usiamo addirittura il termine vegetare per intendere una cosa che non ha sensibilità e non ha più capacità intellettive), ma è proprio il contrario. Le piante sono, dal punto di vista della sensibilità, sono molto più sensibili degli animali, cioè riescono a percepire cosa accade nel loro ambiente in maniera estremamente sofisticata e selettiva. Hanno anche delle capacità cognitive che, anche se ovviamente non sono paragonabili a quelle degli animali, permettono loro di risolvere dei problemi.
L’internet delle cose essenzialmente funziona attraverso l’immissione dei sensori nelle cose. Prendiamo una sedia, un vestito, una macchina, gli inseriamo dei sensori tecnologici che servono a misurare la per esempio temperatura, la pressione, il gas e usiamo questo oggetto per rilevare dei parametri. Con le piante il concetto può essere ribaltato: invece di inserire dei sensori nelle cose, andiamo ad usare delle cose che sono già piene di sensori naturali e che hanno una diffusione capillare per tutto il pianeta. Quello che dobbiamo fare è, semplicemente, riuscire a captare le informazioni che queste piante riescono a prendere, decodificarle e trasformarle in un formato digitale.
La Internet Naturale delle piante
Quello che non tutti sanno è che le piante si scambiano continuamente informazioni e di fatto sono già una sorta di Internet Naturale. Le singole piante fra di loro sono delle comunicatrici eccezionali poiché si scambiano continuamente informazioni, attraverso molecole chimiche volatili, su qualunque aspetto dell’ambiente, come, per esempio, sullo stato dell’atmosfera (se ci sono inquinanti) e sullo stato dei suoli (se ci sono acqua, agenti patogeni, inquinanti, e addirittura se accanto ci sono delle persone o dei fuochi ). Insomma qualunque cosa intervenga o interferisca con l’ambiente della pianta, è dalle piante percepito e, molto spesso, trasmesso come informazione alle altre piante.
Il lavoro del Professor Mancuso, quindi, si occupa di questi due aspetti tramutati in due linee di ricerca ben distinte ma sinergiche:
- Decodificare i segnali all’interno della pianta in modo da interpretare quello che loro sentono
- Decodificare i segnali che le piante si scambiano tra di loro. Questi segnali sono inaspettatamente molto dettagliati e estremamente complessi, poiché le piante hanno diversi livelli di comunicazione a seconda del grado di parentela e vicinanza genetica delle piante con le quali si scambiano i messaggi.
Non è solo teoria
Queste cose sono già reali dato che è possibile già interpretare questi segnali. Infatti, quando una pianta sente qualcosa, produce un segnale elettrico (non differenti di quelli che passano nei nostri nervi anche se sono molto meno complessi e quindi più facilmente decodificabili), che una volta decodificato, produce una informazione.
Al momento si è riusciti già a decodificare segnali che ci aiutano a capire se la pianta è sottoposta ad una luce naturale, oppure ad una luce bianca, blu o rossa. Ma sappiamo anche come cambiano questi segnali elettrici in funzione della qualità della luce e in funzione della quantità di alcuni specifici inquinanti nell’aria, come l’ozono, l’ossido nitrico e le polveri sottili. Per ora si è riusciti ad individuare solo 3 macro livelli: poco, medio o tanto. Anche se questo è già un ottimo risultato, in un prossimo futuro (ovvero nel giro di qualche anno) sarà possibile ampliare la panoramica degli inquinanti che si riuscirà a misurare. La sfida della ricerca, inoltre, sarà quello di riuscire a trarre informazioni che provengano non solo dall’aria, ma anche dal suolo, ovvero dalle radici. Ciò permetterebbe di avere informazioni sulla quantità di acqua nel terreno, sugli inquinanti presenti, e sulla presenza di metalli pesanti e di pesticidi.
Gli scenari reali: monitoraggio del traffico e prevenzione incendi
Fra 5-10 anni, quando si spera di aver decodificato la maggior parte dei segnali che le piante percepiscono e si scambiano, avremo una mole incredibile di informazioni sull’ambiente. Questi segnali potranno essere registrati con degli oggetti che attualmente costano pochi euro e che è ragionevole pensare, in futuro, potranno costare pochi centesimi di euro. Ciò vuol dire poter diffondere questi strumenti di rilevazione a dismisura nell’ambiente e avere, quindi, dati di qualunque tipo e di qualunque natura (come p.es. dati atmosferici e dati sugli inquinanti).
Immaginate i viali alberati di una città. Se noi potessimo mettere questi rilevatori di segnali su ogni albero presente sulle nostre strade, avremo i dati sull’inquinamento in tempo reale e con un dettaglio al mezzo metro. Queste informazioni saranno talmente precise che potremo sapere, addirittura, se una macchina si è fermata nei paraggi. Potremmo usare questi dati anche per avere informazioni di natura diverse, come il traffico, non soltanto attraverso la misurazione degli inquinanti, ma anche attraverso le vibrazioni, poiché le piante percepiscono l’aumento delle vibrazioni e reagiscono a questo. Avendo a disposizione una rete ad altissima risoluzione con nodi posti ogni mezzo metro e che riesce a percepire una quantità di parametri fisici e chimici che, al momento, è di almeno 25 fattori (ma che tenderanno ad aumentare in futuro) è plausibile pensare che il numero di applicazioni possibili è praticamente infinito.
Un altro scenario facilmente applicabile nel futuro riguarderà la prevenzione deli incendi e la salvaguardia dei nostri boschi. Infatti, attualmente i boschi non si riescono a proteggere dagli incendi perché, purtroppo, le segnalazioni arrivano sempre in ritardo, quando oramai il danno è già fatto, oppure perché si verifica in zone remote difficili da raggiungere con facilità. Quello che non tutti sanno, però, è che quando le piante sono colpite dal fuoco, lanciano degli allarmi che si propagano anche per dei chilometri (in termini umani possiamo dire “si spaventano“). Se, quindi, si potessero monitorare anche pochi alberi in un bosco si avrebbero degli immediati benefici. Addirittura, se dotassimo di questi rilevatori anche una pianta ogni 25/50 metri, potremmo avere una fitta maglia in grado di avere una situazione dettagliata sullo stato di saluto dei nostri boschi e di allertarci immediatamente non appena inizia un incendio, in modo da evitare che inizi ad essere pericoloso e su larga scala.
AGGIORNAMENTO: In una puntata di Voyager del 15 Gennaio 2018 si è parlato di questo argomento con un documentario dal titolo “Piante: Vive come Noi“. Lo trovate, nella versione integrale di Voyager, qui su RaiPlay, oppure trovate l’estratto di 25 minuti qui su Youtube.
AGGIORNAMENTO: In un articolo di Wired viene spiegata l’origine del forte odore di erba tagliata, che a molti piace, ma l’erba non lo produce per noi. Gli odori che le piante emettono in condizioni di stress – cioè quando sta succedendo loro qualcosa di negativo per la propria salute (come essere mangiate o avere poca acqua) – sono un modo per allertare altre piante o alcuni animali di quello che sta succedendo loro. Nelle parole dell’ecologo americano Jack Schultz, una delle prime persone a capire che le piante comunicano tra loro, l’odore dell’erba tagliata è «l’erba che grida “aiuto!”». […] In generale però abbiamo capito che non potendo muoversi né produrre suoni, per “dire” qualcosa ad altri esseri viventi le piante emettono composti organici volatili: sostanze chimiche che hanno una tendenza a evaporare e che possono essere percepite dai chemiorecettori del nostro olfatto. È un meccanismo che si è affinato con l’evoluzione. È la ragione per cui le piante aromatiche e le rose, per esempio, hanno un buon odore. Quelli che conosciamo meglio servono per attirare gli insetti, mentre altri hanno la stessa funzione dei feromoni negli animali: sono diretti ad altre piante della stessa specie di quella che li emette.
L’odore dell’erba tagliata è prodotto dalla molecola C6H10O, o cis-3-esenale. È un aldeide, cioè uno tipo di composti chimici che comprendono carbonio (C), idrogeno (H) e ossigeno (O). Non è una molecola stabile, ma anche quella in cui si riorganizza non appena trova una forma più stabile (il 2-esenale) odora di erba tagliata. Chi lo apprezza davvero tanto può acquistare dai produttori di sostanze chimiche il cis-3-esen-1-olo, cioè l’olio essenziale che lo contiene.
Per quanto riguarda le ragioni per cui l’odore dell’erba tagliata piace a tante persone non c’è una risposta certa. Alcuni studi di comportamento sulle scimmie hanno rivelato che l’odore del 2-esenale e del cis-3-esen-1-olo ha un effetto calmante in condizioni di stress. In particolare fa sì che ci sia un afflusso di sangue nella parte della corteccia del cervello che ha a che fare con l’olfatto e non solo. Forse però è solo che fa pensare all’estate.
Nel video in basso, Jack Schultz in una conferenza TED, spiega alcuni meccanismi di comunicazione propri delle piante e i suoi studi per imparare a capirli; cita l’erba tagliata al minuto 3:53.
Gli scienziati chiamano le sostanze odorose prodotte dalle piante “composti organici volatili biogenici”, o BVOC. L’odore dell’erba tagliata è causato da uno di essi. Molti altri (per esempio quelli emessi da una pianta di mais quando è infestata da un parassita, come spiega Schultz) non li sentiamo perché sono prodotti in concentrazioni troppo basse per essere percepiti dall’olfatto umano, ma sufficienti per i sensi degli insetti e per i nasi dei cani.
Per esempio, con il tabacco, quando un bruco si mette a mangiare le sue foglie, la pianta emette un tipo di BVOC che in inglese viene chiamato “composto volatile delle foglie verdi” (GLV) e così attira gli insetti del genere Geocoris che sono predatori dei bruchi. Nel 2010 è stato scoperto che peraltro il tipo di GLV diffuso quando le foglie sono mangiate dai bruchi è diverso da quello prodotto quando una lama taglia le foglie, e attira maggiormente gli insetti Geocoris.
Un’altra specie di pianta di cui sono stati studiati i meccanismi di comunicazione tramite i BVOC è una specie del genere Acacia diffusa in Africa: all’inizio degli anni Novanta lo zoologo sudafricano Wouter Van Hoven scoprì che quando vengono masticate, le foglie della pianta producono tannino, una sostanza tossica a seconda della sua concentrazione, e diffondono nell’aria l’etilene; quest’ultimo fa sì che le foglie delle piante vicine, in un raggio di quasi 50 metri, si mettano a loro volta a produrre tannino nel giro di 5-10 minuti. Se ne accorse dopo che circa tremila kudu (un tipo di antilope) chiusi in una vasta zona recintata morirono improvvisamente: tutte le foglie che avevano a disposizione nell’area in cui erano chiuse erano diventate velenose. A margine: Van Hoven si accorse anche che le giraffe che vivevano fuori dal recinto mangiavano solo le foglie di certe piante, evitando quelle sottovento rispetto a quelle da cui si erano già alimentate.
Con piante di granturco, si è invece, osservato che alcuni esemplari geneticamente modificati per non produrre il GLV non attraggono le vespe che invece cercano sulle piante normali i bruchi di cui si cibano. Le piante in cui avviene la produzione di GLV, oltre a richiamare le vespe quando sono attaccate dagli insetti parassiti, producono anche acido jasmonico (chiamato così perché studiato per la prima volta nel gelsomino, Jasminum), un ormone vegetale che ha una funzione di autodifesa: stimola la produzione di altre sostanze, repellenti per gli insetti.
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